Decostruire uno stigma radicato da secoli nella società è un’opera complessa. Riconoscerne i conseguenti privilegi e provare a scardinarli non lo è da meno.
In quanto non del tutto consapevoli, la prima reazione dellə stessə privilegiatə sarà di sdegno, d’incomprensione e poi un tentativo smisurato di cercare delle motivazioni che giustifichino tale vantaggio. Un qualcosa che renda lə privilegiatə meritevoli di esserlo e, di conseguenza, lə discriminatə colpevoli per la gogna subita.
Negli ultimi due mesi ho preso 4 aerei e relative navette, 10 treni e numerosi altri mezzi di trasporto, tra cui autobus di linea, taxi e car-sharing. Durante questi spostamenti mi sono preoccupata spesso se a causa dei miei irrimediabili ritardi avrei perso uno dei mezzi intermedi di collegamento, rischiando così di arrivare tardi alla partenza del volo. Tuttavia, mai mi sono preoccupata se l’autobus avrebbe avuto posto adatto a me, se sul treno e sull’aereo avrei dovuto prenotare due posti a sedere, anziché uno, a causa delle misure standard dei sedili. In aereo non mi sono mai interrogata se la cintura di sicurezza sarebbe stata della mia misura o se avessi dovuto richiedere il prolungamento a unə assistentə di volo.
Ma mentre io queste domande non me le sono mai poste, per una persona grassa questa è la quotidianità.
La mia colpa non è godere del privilegio a me riservato, – denominato thin privilege, il privilegio delle persone con corpi conformi allo standard in un mondo grassofobico – ma non riconoscerlo e non adoperarmi in modo alcuno per contrastarlo lo sarebbe.
Doctors are the enemy. Weight loss is genocide.
Sara Fishman, 1973
Per comprendere le origini della lotta allo stigma sociale e al conseguente thin privilege è necessario compiere un salto nel passato fino a un articolo del New York Times del 5 giugno 1967: “Curves Have Their Day in Park: 500 at a ‘Fat-in’ Call for Obesity”. Vestiti a righe orizzontali, libri di diete bruciati, foto di Twiggy stracciate, merende sotto il braccio e tanti cartelli dalle scritte “Think Fat”, “Fat Power” e “Buddha Was Fat”. Nel caldo giugno del 1967 si manifestò così l’orgoglio delle oltre 500 persone radunate a Central Park per un sit-in di protesta – rinominato Fat-in per l’occasione – contro la discriminazione sistemica e lo stigma sociale a cui i corpi grassi sono quotidianamente soggetti. Intervistato dal Times, il conduttore radiofonico organizzatore dell’evento Steve Post dichiarò di aver perso oltre 40 chili, ma non la memoria su tutta la violenza verbale, e non, subita a causa del suo fisico non conforme e di come ogni persona presente quel giorno volesse solo “to show we feel happy, not guilty”.

L’eco di quell’eccentrico evento ispirò William Fabrey e Lew Louderback, un ingegnere e un giornalista del Saturday Evening Post. Entrambi stufi della discriminazione subita dalle mogli grasse fondarono la prima associazione per la Fat Acceptance: la National Association to Advance Fat Acceptance. Dedita principalmente ad attività di volontariato, l’associazione tentava di sradicare l’opinione dispregiativa nei confronti delle persone grasse rendendole protagoniste di azioni gentili, altruiste e degne di lode agli occhi dell’immaginario collettivo. Di tutt’altro avviso erano Sara Fishman e Judy Freespirit, due giovani adepte entrate nell’associazione per promuovere una svolta femminista in un ambiente fino a quel momento occupato solo da uomini. La nuova linea proposta cercava uno scontro diretto con qualsiasi istituzione, rete televisiva o evento che perpetuasse l’oppressione della diet culture – ovvero quel sistema valoriale che pone la magrezza al vertice della sua scala gerarchica. In contraddizione con il modus operandi della NAAFA, Fishamn e Freespirit fondarono una loro associazione: la Fat Underground. Nonostante i pochi anni di vita del collettivo, l’establishment medico e la cultura delle diete furono per la prima volta messi in discussione e le istanze del Fat Liberation Manifesto– una raccolta saggistica di donne grasse, pubblicato dal gruppo nel 1973– ispirarono la formazione di altri gruppi di attivistə in tutto il paese.
A fine anni ’90 inizio 2000, il movimento diventa mainstream con il nome di Body Positivity e viene principalmente conosciuto grazie alla modella americana Ashley Graham. Il messaggio iniziale della Fat Acceptance risulta però alleggerito e privato della sua precedente connotazione sistemica e politica. Per comprendere la differenza tra la Fat Acceptence e la sua recente evoluzione in Body Positivity, Virgie Tovar – scrittrice e attivista – definisce le tre dimensioni racchiuse all’inizio del movimento.
- Intrapersonale: considerazione personale del proprio corpo.
- Interpersonale: considerazione esterna e conseguente trattamento sul proprio corpo.
- Istituzionale: come il corpo condiziona la vita in società, accesso ai servizi – posti di lavoro – assistenza medica – vestiario.
Se il movimento per la Fat Aceptance era in grado di coniugare tutte e tre le sfere, la Body Positivity si limita alla prima.
Nel romanzo di recente pubblicazione Belle di faccia, le autrici Chiara Meloni e Mara Mibelli rimarcano come l’avvento della Body Positivity abbia “completamente oscurato la storia del movimento”, tanto da definirlo ormai uno “slogan per vendere creme anticellulite o corsi di empowerment per giovani imprenditrici benestanti”. La primazia del self-lovee di un discorso intimo di crescita e autostima dei singoli individui non porrebbe dunque l’accento sulla dimensione strutturale e sistemica della discriminazione ogni giorno subita dai fisici meno conformi e avrebbe, inoltre, ridotto la categoria di persone da tutelare. I brand di moda che hanno spalancato le loro porte alle modelle curvy hanno comunque imposto un limite discriminatorio ai corpi più grassi rimasti nuovamente esclusi dall’ondata inclusiva. Con le parole delle scrittrici di Belle di faccia, “la body positivity mainstream ha messo al centro un solo corpo: quello rassicurante e non troppo fuori forma della donna bianca, etero, cis e magra o leggermente curvy e la sua ricerca di autostima”.
La discussione sui corpi è dunque una discussione prettamente politica che non può ignorare le dinamiche di esclusione e mancato riconoscimento sociale a cui le persone grasse sono quotidianamente soggette.

Troppo spesso riconoscere di essere proprietari di un privilegio, thin privilege, alimenta un’insensata ricerca di giustificazioni. Lo stigma sociale grassofobico risponde a questa ricerca con l’identificazione delle persone grasse come pigre, svogliate e dunque grasse per l’assenza di volontà di movimento. Alle persone magre è invece riconosciuta una forza di volontà fisica e morale che le rende meritevoli di un fisico conforme. Questa caratteristica dispregiativa delle persone grasse le renderebbe poi propense a problemi di salute tali da giustificare le micro-aggressioni alla base del fat shaming. Entrambe le constatazioni devono la loro esistenza a un’erronea valutazione sociale e a una scarsa conoscenza medica. Per una comprensione corretta è necessario scindere il concetto di salute dall’aspetto estetico. La valutazione clinica di un paziente tiene certamente conto del peso tra gli indicatori di salute, unito e considerato però in relazione a diversi altri fattori. La correlazione diretta e semplicistica che lega l’eccesso adiposo a uno squilibrio calorico è erronea e fortemente pericolosa. Costituiscono problema per la salute alimentazione malsana, assenza di qualsiasi forma di attività, predisposizione genetica, più che il grasso corporeo: non sempre un fisico magro indica un’alimentazione equilibrata e un’assidua attività fisica, nello stesso modo in cui un fisico grasso non è un indicatore di un’alimentazione squilibrata e un’assoluta mancanza di attività fisica. A tal proposito gli studi di Josep Penninger, professore del dipartimento di genetica medica alla British Columbia, dimostrano come la predisposizione fisica e il metabolismo di ognuno di noi abbiano un peso rilevante sulle caratteristiche corporee e che solo l’1% della popolazione può mangiare molto ed essere metabolicamente sano, non fare attività fisica e non aumentare di peso.
Ma se anche il fisico grasso fosse sinonimo di malattia, basterebbe a giustificare il comportamento discriminatorio alla base della grassofobia?

Se scientificamente è dimostrato che non c’è sempre diretta correlazione tra fisico grasso e stile di vita malsano, perché lo ‘shaming’ interessa solo le persone grasse – venendo dunque coniugato in fat shaming?
Le origini di questa discriminazione nulla hanno a che vedere con l’interesse per la salute dei singoli individui, ma anzi traggono le loro radici storiche dal contesto coloniale del 1800. In quegli anni le tesi sulla superiorità della razzabianca si arricchirono di innumerevoli teorie sulla superiorità morale posseduta a dispetto delle popolazioni nere e la grassezza divenne uno dei disvalori morali a loro riconosciuto.
A tal proposito Lombroso, medico e filoso di metà ‘800, riconosceva nella grassezza la caratteristica chiave per dimostrare la superiorità della razza bianca su quella nera, degli abitanti del nord Italia sul meridione e, in ultima istanza, degli uomini sulle donne – colpevoli di una maggiore presenza di tessuto adiposo.
Il connotato morale alla base del pregiudizio razziale rimase legato al corpo grasso e si legò ben presto al disperato tentativo della società umana di discostarsi da quei modelli estetici e alla volontà di allinearsi con le più moderne percezioni di bellezza che trovarono un affidabile alleato in chi da tale insensata lotta poteva trarre beneficio economico: l’industria della bellezza. Costruito e modellato sulle insicurezze e sull’offerta di prodotti risolutivi, il mercato della bellezza vanta un valore di oltre 159 miliardi di dollari annuali – di cui 11.7 in Italia – sufficienti per convincerlo a tenere in vita una costante e ridondante discriminazione sul fisico delle persone grasse.
La difficoltà nel trovare capi di abbigliamento, le micro-aggressioni verbali giornaliere da parte dei familiari, amicə e colleghə, la totale assenza di rappresentazione cinematografica e letteraria, il sentirsi quasi obbligatə a doversi giustificare per la propria fisicità – e la lista sarebbe ancora lunga – sono le difficoltà che affliggono ogni giorno le persone con fisici non conformi; e la diet culture pervade ogni aspetto della nostra vita quotidiana, dalle inserzioni pubblicitarie ai programmi di intrattenimento televisivi, passando per i mega cartelloni di fronte alle palestre e a qualsiasi cookie di instagram.
Nel precedentemente citato romanzo Belle di faccia, Chiara Meloni e Mara Mibelli pongono un interessante interrogativo per decostruire il pensiero mainstream del body positivity: dopo aver accettato e amato il mio fisico in nome del self-lovecome posso avere le stesse opportunità lavorative di una qualsiasi persona con un corpo conforme? In che modo posso evitare la discriminazione costante che subisco solo per non allinearmi con un’ideale corporeo distante dal mio?